sabato 14 novembre 2009

Perché i veri tesori dell'uomo sono inutili?

Sento ancora il bisogno di parlare delle "cose" (vedi etichetta Vizi capitali n. 7: Avarizia). Mi è capitato tra le mani un testo di Bruce Chatwin, Anatomia dell'irrequietezza (pubblicato Adelphi), che ha tra i vari capitoli tematici che lo compone un saggio dedicato alle "cose". Il titolo: "La moralità delle cose", del 1973. Riprendo alcune frasi che vi ho trovato: "Ma le cose hanno un loro modo di insinuarsi in ogni vicenda umana (...). Uno scimpanzé usa pietre e bastoni come strumenti, ma non ha beni da custodire. L'uomo sì. E le cose a cui si affeziona di più non servono a nessuna funzione utile. Sono, invece, simboli, o ancora emotive. (...). Perché i veri tesori dell'uomo sono inutili?. Se capissimo questo, riusciremmo anche a capire i complicati rituali del mercato dell'arte."

E ancora: " Il vero collezionista, (...), è nella vita un voyeur, che si protegge con un'imbottitura di possessi da coloro che vorrebbe amare, dotato di sentimenti delicatissimi per le cose e di una sensibilità glaciale per le persone. (...). Il collezionista si crea un sistema morale da cui esclude gli esseri umani. Possiamo chiamarlo la moralità delle cose. L'acquisizione di un oggetto diventa per sé una Ricerca del Grall - la caccia, l'identificazione della selvaggina, la decisione di comprare, il sacrificio e la paura della rovina finanziaria, la Nube Oscura dell'Incertezza ("sarà un falso?"), l'impacchettamento, il viaggio a casa, l'estasi di disfare l'involucro, il disvelamento dell'oggetto della ricerca, la notte in cui non si va a letto con nessuno, ma si veglia, contemplando, accarezzando, adorando il nuovo feticcio - il compagno, l'amante, ma ben presto il seccatore, da cacciar via o da rivendere quando un'altra cosa più desiderabile lo soppianta nei nostri affetti. (...) Il vero collezionista ospita uno stuolo di amanti inanimati per puntellare le macerie della vita. In un'autoanalisi di precisione chirurgica , Mario Praz, nel suo "La casa della vita", spiega che sulle persone non si può mai fare assegnamento. Bisogna, invece, circondarsi di cose, perché loro non ti abbandonano mai. La raccolta d'arte è dunque un disperato stratagemma contro il fallimento, un rito personale per curare la solitudine. Il mercato dell'arte è l'aspetto pubblico di questa religione privata, e con la sua evidente irrazionalità, sembra sfidare ogni regola commerciale conosciuta. Tramuta l'uomo d'affari in un ingenuo credente, e fa sembrare un prodigio di accortezza il villico con la sua pignatta d'oro al piede dell'arcobaleno."

Direi che Chatwin è anch'esso di una precisione chirurgica. coglie aspetti umani di ampio respiro, sintetizzandoli con precisione. Chatwin spiega anche: "La parola "feticcio" deriva da un'espressione portoghese, fetico; indicante una cosa magica o incantata, con la connotazione aggiuntiva di un che di abbellito o di falso, come maquillage. il termine "feticismo" fu usato per la prima volta nel 1760 da un francese di grande acume, il Président de Brosses, il quale descrive "il culto, forse non meno antico del culto degli astri, di taluni oggetti materiali terrestri chiamati feticci dai neri africani. Chiamerò questo culto feticismo. Anche se nel suo contesto originario esso riguarda le credenze dei neri, io intendo usarlo per ogni nazione i cui oggetti sacri siano animali o cose inanimate dotate di qualche virtù divina". (...) Altri autori hanno parlato del feticismo: per Auguste Comte esso è una fase religiosa che tutte le razze devono attraversare; per Hegel è una condizione in cui sono impantanati i poveri negri; per Marx il "feticismo della merce" è inseparabile dal capitalismo borghese ma è destinato a svanire nell'armonia comunista quando le masse lavoratrici si siano impossessate delle cose dei ricchi. E infine arriviamo a Freud, secondo il quale l'attaccamento feticistico alle cose è radicato nella psicopatologia dell'individuo, è di fatto una perversione, e come tale può essere curato."

Mi fermo qui. Tutta questa analisi è interessante e proficua. Io che collezionista lo sono, da quando ho memoria di me (non d'arte ovviamente); io che dalle "cose" spesso mi faccio rapire, in parte mi ritrovo in tutte queste considerazioni e le condivido. Io credo che siano un incoraggiamento a fare una bella catasta delle cose (di cui ogni giorno ci attorniamo, senza forse nemmeno capire bene perché, visto che la componente feticista, ovvero malata, ci obnubila la mente) e appiccare il fuoco.

Non so, mi sembra che questo sia uno di quei propositi da inizio anno, che già il giorno dopo risulta di difficile applicabilità. Niente fuoco quindi, ma qualche consapevolezza in più sì.

E' ancora più singolare come alla fine di tutte queste cose mi sovvenga una citazione dal Giulio Cesare di Shakespeare che in realtà ricordo perchè apre e regala il titolo italiano ad un libretto della fine degli anni '40, che è anche una delle poche opere conosciute di un autore abbastanza misterioso, di cui anche Leonardo Sciascia si occupò al tempo, ma di cui anch'egli ci seppe dire ben poco. L'autore è Geoffrey Holiday Hall (che sia stato uno pseudonimo?), il libro: La fine è nota, pubblicato nel 1990 da Sellerio editore. Bene. La citazione che apre il libro, dal Giulio Cesare si diceva, è: "Oh, se fosse dato all'uomo di conoscere la fine di questo giorno che incombe! Ma basta solo che il giorno trascorra e la sua fine è nota."

Chissà se staremmo qui a parlare, a fare collezioni, a coprirci del troppo, se sapessimo... ma basta aspettare e ciò che già supponiamo, ciò che senza dubbio alcuno, in realtà, già conosciamo, ci verrà svelato: quanto inutili siano stati i nostri presunti tesori!