giovedì 28 gennaio 2010

Storia e memoria

All’indomani della Giornata della Memoria, che come ogni anno mi porta a confrontarmi con un passato scomodo e doloroso, che, in quanto essere umano, mi appartiene, mi trovo ad interrogarmi sulla possibilità che questa occasione ci offre “per ricordare” nell’impossibilità “di comprendere”. Così ho sentito suggerire dal senatore Bacicchi durante l’incontro di presentazione dello spettacolo E’ bello vivere liberi!, scritto e interpretato da Marta Cuscunà, e che rappresenta uno splendido esempio di teatro civile, dove vengono rilette le vicende della vita della partigiana comunista Ondina Peteani di Ronchi dei Legionari, deportata ad Auschwitz e sopravvissuta a quella orribile esperienza (morirà nel 2002, se non ricordo male). Ciò che più mi sconcerta quando partecipo a qualcuno degli eventi correlati a questa Giornata istituita in Italia per legge nel 2000 (con grande ritardo direi) è la consapevolezza che le testimonianze dirette a cui noi possiamo oggi assistere (da parte di ex deportati o di partigiani o semplicemente di nonni o zii, che quel periodo lo hanno vissuto in prima persona) non potranno durare che qualche anno ancora. L’inevitabile scomparsa dei testimoni diretti porta con sè un rischio enorme, per la tendenza dell’uomo a restare impressionato esclusivamente da ciò che può toccare con mano: il ricordo che si dissolve a volte nel folklore o a volte nel revisionismo. Da qui l’importanza di ascoltare i testimoni, alimentando la memoria, ogni volta ce ne sia data l’occasione.
Di quanto ho sentito nella giornata di ieri (oltre allo spettacolo di Marta), mi restano principalmente due testimonianze/interventi, che credo più significativi del semplicistico e strumentale effetto mediatico “Ogni uomo oggi è ebreo. Anche io oggi sono ebreo…” pronunciato dal presidente del Senato Renato Schifani durante la visita lampo alla Risiera di San Sabba di Trieste, stella di Davide puntata al petto. La prima è del premio Nobel per la Pace Eliezer Wiesel, rumeno di cultura ebraica, oggi americano, sopravvissuto al campo di Auschwitz prima e di Buchenwald poi: “I testimoni hanno parlato, ma il mondo si è rifiutato di ascoltare, altrimenti non si spiegherebbero i genocidi che sono avvenuti nel dopoguerra: se Auschwitz non ha guarito il mondo dall’antisemitismo che cosa potrà guarirlo? (…) Non dobbiamo consentire che il nostro passato diventi il futuro per i nostri figli.”
La seconda, lapidaria e universale, è del Goriziano Mario Simaz, sopravvissuto all’internamento nei campi di sterminio in Germania, insignito ieri della medaglia d’onore del Presidente della Repubblica nella cerimonia organizzata dalla Provincia di Gorizia: “Ai giovani e a chi non ha vissuto la tragedia della Shoah posso solo dire che la guerra, l’odio e la violenza sono cose terribili, che non si devono ripetere mai più”.
Mi sovviene ora. La memoria è spesso acritica, non incline ai compromessi: assorbe e restituisce esperienze proprie e altrui. La memoria non sceglie e mi porta oggi ad un ricordo che stava sepolto lì, tra le pieghe, e ora sembra un rigurgito, che potrei forse interpretare a fronte di quanto detto sopra, ma che invece credo di instradare disinvoltamente tra i fatti di cronaca, divenendo un omaggio alla mia memoria e alla mia giovinezza.
E’ un episodio del 1988. Io, studente di Architettura a Venezia al primo anno accademico, potendo accedere alle liste per disporre di una stanza nelle case dello studente veneziane, avendo ricevuto, per ragioni burocratiche, l’assegnazione in ritardo, vengo alloggiato nella casa denominata Ca’ Laca, non distante dalla chiesa dei Frari. La mia fu la condizione di unica “matricola” in un contesto storicamente assegnato ai fuori corso, fuori zona, perlopiù di origine pugliese e siciliana o straniera in genere. Fu quella un’esperienza formativa, direi, paragonabile ad un anno (tanto durò la mia permanenza lì) di leva militare. Dei “nonni”, a cui seppi infine tenere testa, divenendo una sorta di mascotte accettata e rispettata nella casa, mi ricordo tra gli altri di Carlo, con cui dividevo la stanza. Carlo era catanese e mi faceva ascoltare giorno e sera Fisiognomica di Franco Battiato. Stava allora preparando la sua tesi di laurea sull’Arsenale di Venezia e la stanza sembrava un deposito di plastici di studio. Carlo aveva una ragazza di Venezia e quando occupavano la stanza per farci del sesso, si chiudevano a chiave e mi lasciavano in portineria al piano terreno (noi stavamo al quarto, nel sottotetto) un biglietto con scritto: COMPLETO!
Mi ricordo poi di Mauro, che ci invitava nella sua stanza e mentre ci offriva del Jack Daniels al lume di candela (che io non bevevo, essendo astemio), ci chiedeva consigli sulle fotografie di nudo che scattava alla sua ragazza sullo stesso divano dove noi stavamo seduti. Sullo sfondo le musiche di David Sylvian e dei This Mortal Coil, che io suggerivo per tutti.

Mi ricordo del gruppo leccese e del gruppo palermitano e della loro caciarosità e litigiosità, continua ed insistita, che non smetteva mai, nemmeno alla mensa universitaria di Ca’ Foscari. Ricordo il portiere Sandro (???), veneziano “DOC”, che insisteva per degli infiniti tornei a scopone scientifico, che finiva sempre per vincere e che convinse l’ESU a dotare la casa di un videoregistratore per l’organizzazione delle serate cinematografiche suddivise su tre fasce serali: dalle 18.00 alle 20.00 film “commedia”, dalle 20.00 alle 22.00 film “serio”, come diceva Sandro, dalle 22.00 alle 24.00 film “porno” (la fascia più seguita dagli uomini e dalle donne della casa, imperversando allora Moana Pozzi).
Ricordo vari ragazzi sui 25-30 anni, sconosciuti alla casa, che entravano nella sala di ingresso, dove c’erano delle sedie o delle poltroncine, e strafatti d’haschis (credo), se ne stavano lì a smaltire, con lo sguardo nel vuoto, senza rispondere alle domande dei più, senza dire nulla, perché in fondo c’era poco da dire in quei favolosi anni ’80.
La componente straniera era fatta di un nero inglese, fan di Michael Jackson, che se ne partì al concerto di Torino e tornato ci rifece, precisi, precisi, tutti i balletti del suo idolo; di alcuni palestinesi, un Monhir, un Hassam, e alcuni libanesi cristiani. Ricordo che di notte non si dormiva mai (e di giorno non si studiava mai), perché c’era sempre qualcosa da festeggiare. Ricordo i ramadan di alcuni palestinesi e il totale disinteresse per la religione di alcuni altri. Tra questi ultimi c’era un palestinese sciancato, zoppo e astuto, che soffiava, con i suoi modi gentili, le ragazze a tutti.
Una notte una ragazza di Castelfranco Veneto ci svegliò, io e Carlo. La porta delle camere era sempre aperta e la privacy non esisteva. Nella casa i bagni erano in comune e le scale, dalle quali si “gavettonavano” i neo-laureati con secchi d’acqua dal quarto piano, era una specie di piazza pubblica. La ragazza aprì la porta verso le due o le tre di notte, ci svegliò gridando che qualcuno al terzo piano aveva organizzato un addio notturno per la partenza di un ragazzo libanese, di cui non ricordo il nome. Ci trovammo così nella stanza della ragazza, tutti in pigiama e pantofole con un piatto di spaghetti fumanti tra le mani. Il ragazzo libanese era tristissimo: doveva partire d’urgenza per il sud del Libano, essendo i suoi genitori stati uccisi durante uno scontro a fuoco, credo all’interno della guerra interna alla comunità cristiana che scuoteva al tempo il paese, conseguentemente alla storica formazione della zona di sicurezza tra Libano e Israele. Suo fratello gli aveva chiesto di rientrare, poiché vi era la casa da difendere o qualcosa di simile (non ricordo bene). Ricordo che salutammo la partenza, brindando con della Coca-Cola e che nel salutarci il libanese ci baciò uno a uno sulla guancia, lasciandomi ancora oggi la sensazione della sua barba che mi pungeva il volto e della sua pelle bagnata di lacrime. Il ragazzo ci disse che se tutto si fosse sistemato, se non fosse morto ci saremmo rivisti, lì a Venezia. Ci ritrovammo, invece, circa due mesi più tardi, nella stanza di un altro libanese, a ricordarne la morte.

La memoria è acritica dicevo, consente sovrapposizioni complesse, ci porta lontano dal centro del problema, ma forse soltanto apparentemente.
(la foto è tratta da una scena dello spettacolo E' bello vivere liberi!, di Marta Cuscunà)