venerdì 14 maggio 2010

Mi leggo mentre scrivo per capire cosa penso!

Domenica 9 maggio, ho assistito a Udine, negli spazi della Chiesa di San Francesco, nel corso della sesta edizione di vicino/lontano, manifestazione correlata al Premio letterario internazionale intitolato allo scomparso Tiziano Terzani al confronto/dialogo tra i due padri storici del “pensiero debole”, Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti. Proprio in questi mesi Feltrinelli ha ristampato nell’Universale Economica (Saggi) il testo dal titolo Il pensiero debole, curato nel 1983 dai due filosofi e che allora ha sintetizzato quel pensiero (vi scriveva anche Eco, Dal Lago, Ferraris, Amoroso, Marconi, Comolli, Costa e Crespi).
Dell incontro vorrei dare qui di seguito un sintetico resoconto, parafrasando per quanto mi sia dato ricordare alcuni dei passaggi a me risultati più interessanti.
Nella foto Vattimo a destra e Rovatti a sinistra con il Direttore de Il Piccolo Paolo Possamai.
Mentre parlano Rovatti non rinuncia al suo ruolo di filosofo militante, mentre Vattimo a quello di socio-politologo.
Vattimo sostiene che “il pensiero debole” ha due filiazioni: un percorso rivolto all’idea della ricerca del vero ai margini, o meglio uno sguardo rivolto ai fenomeni a latere; un secondo invece polemico alla metafisica, che promuove un “indebolimento” del pensiero quale unica strada possibile. Quest’ultimo è un pensiero che non rinuncia a coltivare una teoria della storia, implicando una marcia emancipativa lunga e impegnativa rispetto alcuni dei principi ideologicamente definiti dalla storia. Smentire una verità assoluta implica inevitabilmente la coabitazione con la storia: non è smentita dei “metaracconti” (i grandi racconti), ma la loro verifica di fattibilità. Vattimo sottolinea: “Unico modo per liberarsi dall’idea che un mondo è blu è lo schiarimento dell’”azzurrità””.
Rovatti aggiunge che il percorso è rivolto all’inseguimento del disfarsi degli assoluti nei minimi della quotidianità, senza dover per forza picchiare sulla testa dei metafisici.
Rovatti ha pubblicato di recente un testo dal titolo “Etica minima”, intesa come etica priva di grandi proponimenti, ma contemporaneamente sostenuta da un impegno civile. Vattimo suggerisce la verifica dell’attendibilità di quel programma anche come “minimalismo etico”.
Rovatti suggerisce che “il pensiero debole” dopo quasi 30 anni dal suo pronunciamento è divenuto un marchio, un “brend”, che nella critica alla “violenza della metafisica” ha sviluppato nel tempo in forma sempre più chiara un carattere emancipativo lungo e difficile (come accennava già Vattimo), che è dipeso dall’ostruzionismo degli ideologi che ne hanno intuito anche un progetto politico. Questo progetto sta nella trasformazione di un lavoro filosofico in “esercizio filosofico”. La “critica delle armi” è lavoro di smontaggio del consenso alle stesse, operato sostanzialmente tramite un contemporaneo smontaggio (l’indebolimento appunto, la messa in discussione, il dubbio) delle “armi della critica”. La militanza filosofica è un lavoro di disarmo della verità nella ricerca di una verità dentro la verità stessa.
Rovatti sostiene quindi che “etica minima” non è attenzione al “margine”, al “dettaglio”, ma “verifica" del “limite”, presa di coscienza di quest’ultimo: del limite oltre cui non possiamo spingerci per evitare un disfacimento della soggettività (che non è individualismo assoluto) e della “rassicurazione del diritto”. Vattimo e Rovatti stesso precisano che spesso il limite coincide con il “pudore” e con la “legittimità”. La perdita di legittimità nasce spesso dalla paura intesa come “perdita” (di uno stato o ordine costituito, di una condizione raggiunta). Nel caso odierno nasce dalla perdita della fiducia nel mercato, in quello cioè che costituiva il vero padre garante della contemporaneità. Rovatti, per spiegare la difficoltà nell’adottare un “etica minima”, ricorda Heidegger, il suo richiamo alla “mancanza di emergenza”, che in realtà è assuefazione e disorientamento correlato ad eventi continui e insistiti. E’ “psicopolitica”, ovvero intreccio tra scenario politico e altalena emotiva. E’ politica degli annunci. Il ruolo dela televisione in tal senso è determinante. “Etica minima” è esperienza psichiatrica. E’ un lavoro su se stessi, sulla comprensione della nostra esistenza rispetto il resto, del nostro collocarci rispetto il limite/pudore. E’ scoperta delle parti di noi che sono restate omologate nella “faccenda”: è “impegno critico individuale di giudizio su noi stessi”.
Vattimo cita Walter Benjamin, allorché suggeriva che “i costruttori della rivoluzione sono mossi più dall’immagine dell’uomo nuovo che dalle sofferenze che ci stanno dietro”. La speranza sta nell’indignazione e implica, quale obiettivo, la trasformazione dell’educazione del sistema sociale. E’ pratica che banalmente può essere condotta nel “rispetto degli altri”, anche attraverso processi di “desocializzazione” intesa (credo di aver capito) come “de-omologazione”. E’ nascita del dubbio posto nella domanda: “Se sono utopico-trasformista, accetto i compromessi?” E’ progetto individuale e contestualmente sociale. Rovatti ricorda: la resistenza della comunità sta anche nell’individuo, nella ricerca, nella speranza di ciascuno verso l’”incomprimibilità” della propria soggettività sotto una certa soglia.
Il compito dell’intellettuale è filosoficamente la militanza nel lavoro di critica e nella prassi “la discorsività della parola scritta”. Non basta l’idea in sé, bisogna comunicarla: da cui il ruolo trainante della scrittura giornalistica, prima ancora di quella saggistica.
Il fine è il contenimento, se non l’abbattimento, di quel “muro gelatinoso” che copre ormai ogni cosa e ci fa credere liberi.

“Pensiero debole” e la sua coerenza con “Etica minima” interpretati come progetto politico. E’ una riflessione importante, che mi impone quindi una riflessione di “appartenenza”. Ovviamente, come ha suggerito più volte Vattimo stesso durante l’incontro a Udine, dimostrando continuità tra pensiero e parole: “Mi sto ascoltando mentre parlo, per capire cosa penso!”