domenica 5 giugno 2011

...l'arte s'è desta?

Che Vittorio Sgarbi sia un provocatore di mestiere penso sia chiaro a tutti. Se però riuscisse a dimenticarsene e facesse solo il critico d'arte, io credo potrebbe dare molti contributi al mondo dell'arte contemporanea. Il suo lavoro curatoriale per il Padiglione Italia ("L'arte non è cosa nostra") all'interno della 54. Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia (la Biennale) è uno di questi contributi importanti. Non perché abbia centrato appieno il proprio lavoro, ma perché ha creato un dibattito attorno ad esso: e il confronto dissonante è di certo matrice di crescita. Sgarbi ha proposto un "magazzino d'arte" fatto di opere affiancate e sovrapposte (un "caos" l'ha chiamato Gillo Dorfles, pur apprezzandone l'idea di fondo), mettendo fianco a fianco un numero impensabile di artisti rispetto le scelte curatoriali tipiche per una Biennale. Ha preferito far venire meno il pensiero forte, l'indirizzo diremo, a favore dell'oggetto, che in questo caso è davvero molteplice. Ha chiesto a molti, da lui considerati intellettuali, italiani di proporre un'artista e poi grazie all'allestimento di Benedetta Tagliabue li ha "mostrati". Insomma non ha scelto, non ha fatto il critico. Io diffido di questa "non scelta" e condivido quando Robert Storr dichiara di preferire "la riaffermazione della centralità della critica" (lui, d'altra parte, era direttore alla Biennale nel 2007 e non può oggi che affermare la bontà delle sue scelte di allora). Inoltre è ancora Dorfles a suggerire (cito queste note dall'articolo apparso sul Corriere della Sera a nome di Vincenzo Trione il giorno 04 giugno): "Mi sembra interessante l'idea di proporre un numero tanto elevato di voci: a Venezia non era mai accaduto. Eppure, non si è riusciti a rappresentare un clima. Non si sono suggerite tendenze, stili". In effetti, credo anch'io che questo sia il rischio, quello di non consegnare niente a chi guarda, al pubblico cioé. Non scegliere è in fondo non consegnare nulla alla tutela futura, non mettere sul piedistallo. Non affrontare il problema del ruolo della storia. Oggi, se guardiamo con interesse qualcosa che proviene dal passato, ovvero se diamo un "valore storico" a qualcosa, è perché qualcuno (la critica artistica ad esempio) ha saputo individuarvi un merito all'epoca e quindi successivamente, ovvero quando si è quindi scelto di proteggere quel qualcosa, oppure di "museizzarlo". Come Dorfles, anch'io resto perplesso. Poi Sgarbi non può tralasciare di essere Sgarbi, il provocatore, e quindi alla presentazione ufficiale del Padiglione ha sparato a zero sulle Soprintendenze che hanno concesso alcuni spazi (ad esempio la Basilica palladiana di San Giorgio ad Anish Kapoor, con il tramite del mecenate di turno, ovvero "Vogue Italia" e la sua direttrice Franca Sozzani; o una nicchia del Sansovino a Julian Schnabel al Correr) e soprattutto sul mondo della Moda: "La moda parla di maestri, ma se non hanno una K o una H nel nome, meglio se in fondo, non li espongono nemmeno". Sgarbi ce l'ha con questo mecenatismo fatto di interessi, fatto di profitti, così poco vicino alla cultura e forse più legato al "glamour" pubblicitario che ne consegue. Francesco Bonami spara a zero contro Sgarbi (sono due mondi della critica, i loro, che si muovono paralleli e che non si toccano, alla pari di quelli di Philippe Daverio e dello stesso Bonami, ecc.; ognuno di loro ha un orgoglio ferito e una lingua "ferente" e posizioni da curare, rapporti da sostenere). Lo fa anche Beatrice Trussardi, una delle "mecenati" chiamate in causa, che sottolinea come le fondazioni private siano riuscite a Milano, laddove le istituzioni pubbliche hanno fallito per decenni. E infatti i soldi corrono a Milano attorno al solito glamour, al raffinato che si sposa con il stucchevole, al "vuoto" che sostituisce "i pieni" del passato, dei padri della cultura artistica italiana: "Milano da bere", un tempo, "Milano da allestire", oggi. Attenzione, tutto questo va detto nella consapevolezza che senza i soldi non si fa nulla e i soldi pubblici, che magari ci sono, per la cultura sono sempre un pò più nascosti. Non spaventa il parere di Sgarbi sul ruolo invadente delle Fondazioni, nè il ruolo delle Fondazioni in sè: spiace che si possa e debba fare giusta dietrologia a fronte dei profitti e dei ritorni economici messi in campo, e soprattutto che questi non siano ritorni che avvantaggiano realmente l'ente pubblico, la collettività diremo, sancendo invece un'egemonia del denaro sulle scelte artistiche, svuotando spesso tali scelte di contenuti a favore della forma. Dispiace che l'ente pubblico sia costretto ad affidarsi obbligatoriamente al privato e non possa, per carenza di capacità, volontà o possibilità contrattuale, svolgere indirizzi autonomi. Spiace poi che il privato scelga e ribadisca il ruolo di ulteriori privati, i vari curatori o direttori, che specie in un mondo autoreferenziale qual'è quello dell'arte, approffittano del potere indiretto che hanno per incrementare il proprio orgoglio e la propria ambizione, che è spesso paritetica ad una pochezza etica proprio verso la "cosa pubblica". Si crea una specie di matrioska, tante scatole vuote che proteggono forme vuote, sino a ridursi nel nucleo all'oggetto di per se stesso, trascurando il fine vero, che è la crescita di un popolo, della sua consapevolezza. E così: Sgarbi accusa, Bonami accusa, Trussardi accusa e noi paghiamo. E non solo in termini monetari, bensì formativi.

(nella foto un'opera d'arte concettuale firmata dai miei muratori, idraulici ed elettricisti, dal titolo: Angolo cottura)